L'Aria, i Colori, la Frescura, la Quiete
della collina molisana
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CAVALIERE DEI DUE REGNI
PIETRO RAMAGLIA INSIGNE CLINICO




On line l'articolo che Padre Alessandro Cristofaro
(Ripabottoni 28 Luglio 1921 - Campobasso 15 Novembre 2002)
pubblicò, per la prima volta, nel volume de'

ARCHIVIO STORICO MOLISANO Anno IV/V - Dicembre 80/81.
Edito a cura dell'Associazione di Storia Patria del Molise








Pietro Ramaglia
Pietro Ramaglia
nato a Ripabottoni il 31 Marzo 1802
morto a Napoli il 4 Giugno 1875.
Medico della corte del Re Ferdinando II di Borbone
L'immagine sopra riportata è l'unica immagine conosciuta di Pietro Ramaglia
ed altro non è che il ritratto posto a imperitura memoria sulla sua
lapide nel cimitero delle "366 Fosse"
- Arciconfraternita di S.M.D.P. - in Napoli



ALESSANDRO CRISTOFARO

Pietro Ramaglia insigne clinico



(Pagine da 155 a 160)

Don Pie', quant'hai avuto?
Da qualche tempo il re non si sentiva bene.Era incanutito, divenuto pingue, in maniera da non poter più montare a cavallo agilmente, né rimanervi a lungo, e di tanto in tanto avvertiva una grande spossatezza.
Il dottor Ramaglia - continuiamo ad attingere dal De Cesare - qualche mese prima, aveva scoperto intorno al collo del re un'eruzione erpetica di un rosso vivace, che lo impensierì e prescrisse una cura che non fu eseguita.
Dieci giorni prima di lasciare Caserta, la regina volle consultare nuovamente l'insigne circa l'opportunità del viaggio e il Ramaglia rispose: "Il re non ha florida salute, ed io sono di parere che il viaggio nelle Puglie si dovrebbe rimandare alla prossima primavera; si irrigidisce il tempo, non so quanto ne soffrirebbe la salute del re".
Alla regina non piacque quel franco linguaggio e licenziò il Ramaglia con freddezza. Fu riferito che il re dicesse al Ramaglia: "Don Pie', quant'hai avuto per darme sto consiglio?".
E risolvette due cose: partire il giorno 8 gennaio per le Puglie e far celebrare per procura il matrimonio. (1)

Oh! bel connubio!
Gli sposi erano Francesco, duca di Calabria; Maria Sofia Amalia, di Baviera; il re Ferdinando II, che - deciso di dar moglie al figlio - condusse da sé in gran segreto le trattative.
E, come stabilito dallo stesso Ferdinando II, l'8 gennaio 1859 a Monaco di Baviera si svolsero le cerimonie del matrimonio per procura;


(1) cf. De Cesare Raffaele, La fine di un Regno, p. l, III ed. Città di Castello 1908, p. 416.

Pag. 155


il 13 la sposa lasciò Monaco e a Trieste, ricevuta a bordo del «Fulminante», si diresse alla volta di Bari, per sbarcare a Manfredonia, secondo la volontà di Ferdinando II, «rinnovandosi, cosi, dopo 62 anni, la cerimonia che nel 1797 ebbe luogo a Foggia, nella chiesa della Madonna dei Sette veli, quando Francesco I, allora principe ereditario, condotto da suo padre Ferdinando, sposò in prime nozze Maria Clementina, arciduchessa d'Austria, sbarcata appunto a Manfredonia» (2).
Parole cortesi ed auguri per il matrimonio non mancarono; auguri sinceri, perché Francesco era ben voluto e poco conosciuto, ma si aveva gran fiducia in lui; e poi tutti eran curiosi di vedere la sposa, che i giornali decantavano per la bellezza, per lo spirito e l'ardimento.
Nel volume di occasione per festeggiare il matrimonio («Omaggio - Sebezio>») la calda musa dei poeti. enfaticamente, esclamava:
Oh! bel connubio! qual d'avventurosi
Gioani è promessa del Sebeto ai figli
Questo bel fiore, aggiunto ai gloriosi
Borbonii gigli! (3).

Il disgraziato viaggio

Il re partì, ma il suo viagglo fu, secondo le pessimistiche previsioni del dottor Ramaglia, sofferto, anzi «disgraziato» - come lo definisce lo storico De Cesare - e per la bizzarria del tempo - freddo e bufere di neve - e per le condizioni fisiche del re, che di giorno in giorno si aggravavano.
Ferdinando II stabilì di compiere il viaggio in una quindicina di giorni -- senza «addobbi d'intendenze» né «dissipazioni di amministrazioni provinciali» -, tenendo conto delle indispensabili fermate e distribuendo le tappe cosi: da Caserta ad Avellino, da Avellino a Foggia, da Foggia ad Andria, da Andria ad Acquaviva, da Acquaviva a Lecce, da Lecce a Bari per l'andata; e per il ritorno: da Bari a Barletta, a Manfredonia, a Foggia, ad Avellino ed a Caserta.

(2) ivi, pp. 4ll-416. Programma modificato, per la malattia del re, aggravatosi: la sposa lasciò Vienna il 30 gennaio (cf. o.c., p.469), salpò dal porto di Trieste il 4 febbraio (p. 470) e sbarcò non a Manfredonia, ma a Bari.

(3) ivi, p. 415s.


Pag.156


ln una giornata rigida, «anzi cruda», con preparativi «miseri e malinconici, la preoccupazione del re -- che non riusciva a dissiparla anche se ostentava una loquacità scherzosa, ma non spontanea - e il malcontento del seguito, si uscì dalla reggia di Caserta «Né la regina, né i principi davano segno di gaiezza; anzi alcuni del seguito, napolitanamente, mormoravano, confidandosi paure e prognostici non lieti, per l'ostinazione, anzi per il capriccio del re di compiere un lungo viaggio nel cuore dell'inverno» (4).
Varcando il cancello della reggia, i sovrani si segnarono e cominciarono quella via crucis, che doveva poi avere un cosi triste epilogo. Su tutti incombeva una nota di malinconia e "non pareva gente diretta a una cerimonia di nozze, ma un corteo funebre, che la rigidità della stagione rendeva più lugubre e un destino inesorabile spingeva su quelle vette solitarie [da Avellino ad Ariano Irpino], coperte di neve" (5).
Al sesto giorno di viaggio, il moto della carrozza aumentava le sofferenze del re che, perciò, aveva gran fretta di arrivare a Lecce, dove contava riposarsi a lungo, ed invece proprio in quella città, durante la notte, ebbe il primo assalto del male: crebbe il dolore ai lombi ed un senso di oppressione gl'impedì di dormire. Aveva la febbre.
Si inizia il consulto dei medici: il dottor Giuseppe Leone, che non vide subito il re, dai sintomi della malattia, espostigli dalla regina, giudicò impossibile la partenza e fu risoluto di non partire. Aggravatosi, il re «di suo capo volle cavarsi il sangue».
Il salasso non restitui il benessere al re, anzi il male si inasprì: tosse, vomito e peso allo stomaco lo tormentavano con maggiore insistenza, tanto che il dottor Leone, credendo che si trattasse di congestione polmonare con complicazione gastrica, prescrisse dell'acetato ammoniacale.
Già dal secondo giorno la regina, intanto, aveva telegrafato al dottor Ramaglia di partir subito per Lecce. Don Pietro arrivò cinque giorni dopo, accompagnato dall'assistente Domenico Capozzi. Ricevuto dalla regina, che non gli volle far vedere subito il re per non allarmarlo, lo informò largamente del suo stato.


(4) lvi, p. 419.

(5) lvi, p. 427.


pag.157




ll Ramaglia, dal resoconto della regina, da principio giudicò il male del re una febbre reumatico-biliosa, mentre il dottor Leone l'aveva definita reumatico-catarrale con complicazione gastrica; ma il Ramaglia "insisté per la biliosa perché egli sapeva," aggiunse, "a quali dispiaceri fosse andato soggetto il re".
Dopo la visita, Ramaglia confermò la sua diagnosi, ma forse capì che il caso era più grave di quanto avesse supposto. E poiché si era meravigliato di non vedere presso il re il valoroso dottor D'Arpe, suo amicissimo, volle andare a vederlo e gli chiese: "E non ti chiamarono per il re infermo? - Non sono il medico del tempo," rispose il D'Arpe. "Curiamo la febbre", disse il Ramaglia, "ma temo che lo sfacelo andrà più oltre'; e seguitò a curare la febbre, la quale dai sintomi che si manifestarono posteriormente, opparve causata da quell'ascesso all'inguine, che, non curato da principio, avvelenò via via il sangue e cagionò la morte del re" (6).
Qualche giorno dopo la venuta del Ramaglia, si verificò un notevole miglioramento; il re stava meglio, ma sentiva una grande prostrazione di forze; i due medici non erano tranquilli sulle sue condizioni, anzi prevedevano una ricaduta e, volendo evitare il pericolo che questa avvenisse in un punto estremo del Regno, il Ramaglia consigliò la regina ad affrettare la partenza.
Il 27 gennaio il re ringraziò il dottor Giuseppe Leone, che restò a Lecce; partì, accompagnato dal Ramaglia e l'assistente Capozzi, alla volta di Bari, dov'era atteso sin dal giorno 15.
Accoglienze grandiose, ma il re si mostrava "dall'aspetto abbatuto, con la barba e i capelli incolti e completamente canuti". A mons. Rossini, arcivescovo di Matera, che gli chiese conto della sua salute, rispose: ,"Monsignò, sto nu pucurillo acciso "[...] [ : Monsignore, sono mezzo morto ] (7). Era tornato acutissimo il dolore al femore; l'indomani non poté levarsi, ma le feste non vennero per questo sospese.
In tre giorni dall'arrivo a Bari non si era verificato alcun miglioramento. I medici consigliavano il re, anzi lo pregavano che non partisse, "e neppur lui né aveva desiderio e forza". Ma non essendo più possibile ritardare la venuta della duchessa di Calabria, il re, nel giorno 30 gennaio, fece noto quanto si era stabilito con gli arciduchi

(6) Ivi, p. 456
(7) Ivi, p. 465

pag.158


a Lecce, che cioè la sposa, non più a Manfredonia, ma a Bari sarebbe sbarcata (8). Mentre senza tregua fervevano i preparativi, "una nota triste dominava in quell'allegria ufficiale: il re aveva passata la notte fra atroci sofferenze. Ramaglia adoperò tutte le risorse della professione per lenirgli i dolori, ma invano. Aveva la febbre, non trovava requie in letto, né gli bastava la forza di stare in piedi. Dimagriva a vista d'occhio e le preoccupazioni morali rendevano più grave lo stato suo. Non era possibile che uscisse per andare incontro alla sposa, e neppure che si levasse un momento, per assistere alla benedizione nuziale, che si compiva a due camere di distanza dalla sua.
Aver affrontato quel viaggio, nelle condizioni descritte, per prender parte al matrimonio del suo caro Lasa, e non potervi assistere, era ben doloroso, quasi straziante per lui" (9).
L'incontro fra i due sposi e Ferdinando II avvenne in maniera del tutto insolita e da nessuno desiderata: "ll duca e la duchessa di Calabria, con Maria Teresa e i principi, andarono nella camera del re.
Fu commovente l'incontro fra quella giovane creatura, fiorente di salute e di brio, e il Sovrano, invecchiato dal male e sofferentissimo.
Ferdinando II si era levato a sedere sul letto; abbracciò la nuora e la tenne, qualche minuto, così abbracciata, piangendo per la commozione. Chiese notizie del viaggio e si scusò di averla fatta trattenere tanti giorni a Vienna. Conversarono insieme più di mezz'ora, con grande diletto tutt'e due, e sin da quel momento si stabilì, fra suocero e nuora, una simpatia vicendevole".
(10)
Le notti del re diventavano angosciose; la regina e Ramaglia non si allontanavano dal suo capezzale: "ll male faceva progressi, e le sofferenze dell'infermo diventavano insopportabili. Lontano dalla capitale, in una città di provincia, ben diversa da quella che è divenuta oggi, dove non tutto si poteva ottenere e dove non era possibile serbare il segreto, Ramaglia col solo aiuto del giovane Capozzi, si trovava a disagio, né voleva assumersi, più oltre, una grave responsabiltà" (11). Con l'assenso del re, si chiamò da Lecce il dottor Giuseppe Leone;

(8) Ivi, p. 467
(9) Ivi, p. 473
(10) Ivi, p. 416
(11) Ivi, p. 478


pag.159




dopo lungo consulto col Ramaglia, i due medici non si nascosero la gravità del male, nè la difficoltà della cura, perché cominciava a verificarsi qualche fenomeno di competenza chirurgica.
Per un consulto a più vasto raggio, a cui assistettero la regina e il duca di Calabria, si chiamarono tre medici della zona, "in fama di dotti".
Ramaglia fece una lunga relazione, ma ai tre medici dichiarò che loro non era concesso di visitare il re, per non procurargli penose emozioni: "Tutti opprovorono la diagnosi, che fu più tardi criticata come quella che non aveva [tenuto] tanto abbastanza conto dei fenomeni che richiedevano la pronta mano del chirurgo. Si rimproverò a Ramaglia di non aver prevenuto il pericolo di un processo interno di suppurazione, né intuito che la febbre era sostenuta dalla infiammazione dei muscoli posti in fondo e nella parte posteriore del bacino, per l'effetto degli sforzi enormi, che il Re aveva fatto, salendo prima su Ariano e, poi su per l'erta, non meno faticosa di Camporeale, fra il ghiaccio della strada e il nevischio che cadeva abbondante. Il Longo, il Chiaia e il Ferrara andarono via dal consulto malcontenti e quasi mortificati di non aver veduto l'infermo, non senza comunicarsi a vicenda i loro dubbi circa l'esattezza della diagnosi del Ramaglia, che pur avevano approvata" (12).
Nessun medicamento riusciva a calmare gli atroci dolori del re, il dolore acuto al femore impensieriva i medici, che vi facevano applicare grossi empiastri di semi di lino. Ma l'osso non si sentiva più al suo posto ed era cominciato, nella parte esterna corrispondente, un arrossimento per il quale Ramaglia e Leone cominciarono a prevedere la possibilità di una pronta operazione chirurgica; ma nessuno di loro era chirurgo, né era facile persuadere il re a farsi toccare dai ferri.
Fu chiamato di nuovo il dottor Longo, che questa volta fu subito introdotto nella camera del re, che gli porse la mano e lo pregò di attenuare le sue sofferenze. Il Longo osservò minutamente e lo rassicurò che sarebbe guarito, sottoponendosi ad una cura rigorosa. Si tenne nuovo consulto fra lui, Ramaglia e Leone, alla presenza del principe ereditario. Il Longo manifestò il parere che la causa efficiente del male fosse un ascesso alla regione femorale, e perciò consigliava l'uso dei risolventi; e questi non riuscendo, disse creder necessaria l'opera del chirurgo.

(12) Ivi, p. 419


pag.160

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