Tutte le sere, i contadini, tornando dalle campagne, lasciavano una o due ceppe. Alcuni la salma intera ("Salma" = carico portato dall'asino, mulo o cavallo. Naturalmente aveva un diverso peso a secondo della forza dell'animale. Una salma di asino valeva circa i 2/3 della salma di un mulo. Quella di un cavallo circa i tre quarti o poco più.)
L'albero del barcone era alto quanto il prospetto della chiesa. La bandiera che lo sormontava raggiungeva la sommità della croce che stava sulla chiesa. In cima all'albero del barcone mettevano delle spighe legate a palma e un gigantesco tralcio di vite. Fissato alla bandiera: un'immagine si Sant'Antonio che sarebbe bruciata con la legna del barcone, benedicendola. Nel tardo pomeriggio del giorno sedici, subito dopo i vespri solenni, sempre e solo le donne, aspettavano che arrivassero i tzii sulla treggia - a' tragli(e)- tirata dai buoi e portati in trionfo dai ragazzi, dai giovani e dagli adulti. Sulla "treggia" svettava una croce carica di "melegranate" che simboleggiavano la fertilità. Sulla treggia c'era pure il mastro di festa che, coadiuvato dai tzii dava gli ultimi ritocchi al barcone, sotto gli occhi delle donne festanti per il ritorno degli uomini in paese. Messa la parola fine al barcone di S.Antonio, usciva la processione che girava per il paese, alla rossastra luce dei ceri e delle torce. Al rientro della processione, il santo, collocato sopra un altarino preparato sul sagrato, presenziava all'accensione del barcone di legna, onore che spettava al mastro di festa, dopo la benedizione del parroco.
A mezzanotte arrivava il diavolo, vestito da vecchia con la faccia da giovanetta, seguito da altri diavoletti, quasi tutti gobbi e sciancati, che si muovevano incurvati, zoppicanti, lenti ed emettendo suoni lamentosi.
Il diavolo, con il seguito, continuerà a scimmiottare la donna e il lavoro dell'uomo fino a quando arriverà il corteo degli "allevatori" con la "croce santa" annunciati dal coro:
"Evviva la croce / la croce evviva / evviva la croce / e chi la portò." Ripetuto con un crescendo continuo.
Il corteo della croce era preceduto dalle urla dei bambini che andavano e venivano facendosi luce con i tizzoni presi dal falò, che sprigionavano nuvole di "vecchie".
I diavoletti, fatte le boccacce con tutte e due le mani in faccia ai presenti, fuggono a nascondersi nella notte.
Il diavolo solleva la gonna sin sopra all'inguine ed esibendo il flagello gigantesco da asino, piscia in faccia al fuoco. Poi, come hanno fatto gli altri, fuggirà a nascondersi nel buio. Il corteo della croce, nel frattempo, giungeva vicino al fuoco sempre cantando l'inno: "Evviva la croce / la croce evviva / evviva la croce / e chi la portò."
Avrebbe compiuto tre volte il giro intorno al fuoco e solo alla conclusione del terzo giro si sarebbe fermato e avrebbero cantato l'inno a S.Antonio. ...(clicca qui per "L'INNO A S.ANTONIO")...
Poi sempre in corteo, raggiungevano l'altarino su cui era stata poggiata la statua di S.Antonio. Il crocifero infilava l'asta della croce nella colonna a lato dell'altare su cui stava la statua. E poi tornavano verso il fuoco confondendosi con gli altri. La gioia riprendeva come prima, più di prima. E quando la stanchezza si faceva sentire e, all'orizzonte schiariva l'alba, tutti facevano a gara per prendere un po' di quel fuoco sacro, per devozione. La cenere se la portavano gli allevatori. L'avrebbero sparsa nelle stalle e nei campi. Esorcismo contro la grandine, la siccità e le malattie…
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I ggiun', k' z'ann' shtr'cu(e)lièt' a facch' ka tèrr'è rosch du R'mè(je), ku ggéss' ghiank' è ka f'limmi(e) du kul' du cu(e)ttrièll', z' tèmènt'n 'mbacch' l'un l'atr'. Kòl' L'rzitt' z' skav'z'. - Kòl', 'nnu fa' - i dich' Merìggh'sèpp', a spós'. - L'è:jè fà - r'sponn' Kòl' L'rzitt'. Z'avv'chin a u fók', z' fà a króch' é k'mènz' a kamm'nà 'ngòpp' i kar'vun', k'u Mashtr' d'fèsht' a spal'ièt' ku rash'tièll' I' fèmm'n' fann' kind' i shtruzz': nèskonn'n' a facch' p' n' ntèmènd'. E' Kól' L'rzitt', pèssat' a kulla:t' la:t' du tèppét' d' fók', av'z' i mèn' e dich' - A vi(je) du fòk t'da cu(e)raggh'! - Mèrìggh'sèpp' i kèrézz' i pièd' é zu magn' k' ll'uòkki(e).
I tèmburr' sòn'n' |
I giovani hanno strofinato le loro facce con la terra rossa del "Rio Majo" (Nome di un torrente), con il gesso bianco e con la fuliggine presa dal fondo del paiolo, si guardano in faccia l'uno con l'altro. Nicola L'rzitt' (un soprannome) si toglie i calzari (Si scalza). - Nicola, non lo fare - Gli dice Maria Giuseppa, la fidanzata. - Lo devo fare - Risponde Nicola. Si avvicina al fuoco, si fa la croce e comincia a camminare sopra i carboni ardenti che il Maestro di festa aveva disteso per terra usando un rastrello. Le ragazze fanno come gli struzzi: Nascondono la faccia per non guardare. E Nicola, passato all'altro lato del tappeto di fuoco, alza le mani e dice: La via del fuoco ti da coraggio. Maria Giuseppa gli carezza i piedi e lo mangia con gli occhi.
I tamburi suonano. |
Testo: Giuseppantonio Cristofaro
Programmazione HTML e fotografie: Walter La Marca