RipAmici 2000

Come e perché i nostri antenati scelsero
San Michele e San Rocco a compatroni del paese.

Come tutte le cose belle e sante, pure la scelta di S. Rocco a compatrono di Ripabottoni affonda le radici nel mistero.
Gli "antichi" narravano: una sera "'nnènt' k' s'nass' a vémmèrì", (prima che suonasse l'Ave Maria) (non è facile dire se di mezza estate o al principio della primavera), entrò in paese uno strano uomo.
Di lui si ricordano le "vrak(e)" (Brache o pantaloni) unte, il cappello da pellegrino, con la "vozz'" (Bozza, rigonfiamento) appesa.
Portava stracci legati "ki spacu(e)r'", (con gli spaghi) attorno ai piedi, per scarpe.
Mont' p' Sant'è Mèrì (Sopra per Santa Maria) due donne, solite a passare le giornate davanti casa a ridere della gente e la notte ad accogliere gli uomini nel proprio letto, se ne fecero beffa.
Pellegrin k' vien da Rom' (Pellegrino che vieni da Roma)
oilì - oilà"
e giù a ridere.
"Cuann fu a mèzènott' (Quando fu la mezzanotte)
Pellegrin salta in piedi …"
E giù a ridere, a ridere.
Specie dopo che la più sfacciata fece un gestaccio al viandante.
Si fermò. Le guardò a lungo. Poi sentenziò:
- Ve ne pentirete.
- Ki? Noi?
Ma lo sai chi siamo noi?
- Purtroppo. Si. -
Tirò qualcosa dalla bisaccia e la lasciò cadere sull'acciottolato.
Le guardò e
- Manel - Tacel - Fares -
Le donne sollevarono le gonne fino a mostrare il pube
- A vu? (La vuoi?)
Il Pellegrino, continuò per la sua strada.
Le donne continuarono a ridere per un bel po'.
Poi una disse: Strano. Non credi?
L'altra: mi metterei la corda al collo per dondolare dal campanile di Santa Maria come un salame, se una parte della sua minaccia si avverasse.
- Non so che dirti. I suoi occhi … non mi sono piaciuti per niente. "M' skèvav'n' jèkk' p'ddéntr'" (Mi scavavano qui dentro)
- Cuesh' cuèsh' m' bbr'u(e)gnèv' d' fa a p'ttan' ku prèv't'. (Quasi, quasi mi vergognavo di fare la puttana con il prete)
H' - H'… T' fr'mm'kè(ie)n'l'uokki(e) (Hei! Ti luccicano gli occhi).
Mank' fuss' a nott' San Gh'uann' (Nemmeno fosse la notte di San Giovanni).
… Sarà stata la maledizione del pellegrino, sarà stata una forte indigestione, certo è che le due donne morirono da lì a qualche giorno, tra atroci dolori.
Fin qui, forse pura coincidenza.
Il fatto strano sta nel fatto che, dopo morte, continuavano ad emettere dalla bocca, uno strano liquido cremisi che nessun'acqua è riuscita a lavar via.
E nel paese la morte elesse la propria dimora.
Morivano i vecchi, morivano i giovani, morivano i bambini. Il paese veniva passato a croce, "ni cuatt' punt' kard'nal'"(Nei quattro punti cardinali).
La morte era preceduta da una o due settimane di degenza a letto.
I medici, i preti - ce n'erano 11 - la congrega della buona morte, notte e giorno a lavoro. "Mank u tèmp' d'èddr'zzè i rin'"(Manco il tempo per raddrizzare la schiena).
Così pure lo squadrone reclutato dal comune per cavare le fosse nel camposanto lassù in contrada "Coll' du Chém'ch'".
Nel paese regnava una strana confusione di tempi e di cose.
Gente che andava, gente che veniva, come alla ventura.
I ricchi si erano messi in testa che il vino e la carne cotta allo spiedo tenessero lontano la peste.
E lì a uccidere agnelli, a trasportare coi carri la legna, tenere vivo il fuoco nel camino, e a lucidare gli spiedi.
Vino - carne - e "Venere!".
Tutte idee indeterminate, queste. Perché, pure da loro la peste entrava. E pure loro morivano di morte violenta. I pochi che guarivano venivano nominati ufficiali della pubblica sanità. Giravano dappertutto. Spesso trovavano cadaveri sulla strada. Nella campagna…Gente che si era illusa di trovare la vita fuggendo dal paese.
Decenni addietro, la peste aveva desolato altri paesi del Molise. D'improvviso arrivò una notizia strabiliante:
- la vera medicina:
"Il vino bianco. Un bicchiere al digiuno".
Disse qualcuno, che rimase senza nome. Ma nonostante il vino bianco si continuò a morire.
Persone, famiglie, "ruare" (Strade) intere…
Poi le autorità civili e quelle religiose per alleggerire la pressione del contagio decisero di trasportare i malati nei pressi del romitorio di San Michele, qualche chilometro fuori del paese. E far bruciare gli indumenti con i quali erano venuti a contatto.
Qualcuno sosteneva che si dovessero bruciare pure lenzuola e sacconi. Gli uomini sani vennero precettati per costruire capanne di paglia e di "cannuccia dei Vastini". Terminate le costruzioni le donne cucirono i sacconi e li riempirono di paglia di avena e di "cuòkk'l' d' rèndini(e)" (Foglie di granturco).
I primi ricoverati furono portati in processione, dopo l'ora di notte.
Apriva la processione il crocifisso, con ai due lati i portatori di lanterne.
Seguivano gli appartenenti alla congrua della "Buona morte".
Quindi il prete con i paramenti della penitenza.
Subito dopo i malati, stesi su barelle costruite con rami di ulivo e canne palustri, portate a spalle. Chiudeva il corteo tutto il resto del paese.
Procedevano con lentezza, quasi a voler rallentare il passo della morte e cantavano salmi penitenziali e recitavano preghiere. Il nome fu presto trovato.
"Lazzaretto", "Là dove si va a morire".
Fino a quando qualcuno non guarì, i ricoverati, che andavano crescendo di giorno in giorno, vivevano nell'angoscia.
Per amore della verità bisogna dire che i sacerdoti e le "monache B'ggión' presero in mano il governo del posto.
Carica, questa, che comprendeva confessori, infermieri, cucinieri, in una parola "abilitati a tutto ciò che occorreva". Il sacerdote Decano - uomo di provate virtù - "sedava i tumulti, minacciava, puniva, confortava, asciugava e spargeva le lacrime".
La maggior parte di questi "samaritani" ci lasciarono la vita.

Sia detto qui incidentalmente:

- valga questa citazione ad assolvere i ripesi tutti del peccato d'ingratitudine.

X X X X X

Tutti i giorni era un andare e tornare dal paese al Lazzaretto, dal Lazzaretto al camposanto.
A forza di andare e venire anche i cavalli diventarono ronzini ischeletriti.
Spesso capitava che i due cortei - quello dei malati e quello dei morti - si incontrassero, dando luogo a scene di cordoglio.
Quando fra i morti accatastati sui carri c'erano dei parenti o degli amici, i malati, come estremo saluto:
"R'punn'm' u posht' (Riponimi - mettimi da parte - il posto).
Tra kakk' hiuorn', t' vièng' a tr'và. P' r'mèné sèmp' èu(e)nit'" (Tra qualche giorno, ti vengo a trovare. Per rimanere sempre uniti).

Tra questo "Tich'_è_tacch'" tra la vita e la morte passarono giorni e giorni.

X X X X X

A questo punto la storia si fa suggestiva: avvince e affascina con il suo alone di ieratica leggenda.
Avvenne che un pomeriggio di mezza estate l'Angelo della Morte imperterrito si accampò lungo tutta la Montagna con fare minaccioso nei confronti del Lazzaretto.
I degenti rimasero in ascolto di quella notte percorsa da mormorii, quasi grilli di un campo sconosciuto.
Si assopirono.
Si svegliarono.
I pagliericci tremavano. Non le capanne. Neanche il terreno.
Solo i pagliericci, stesi sulla terra.
Si sentivano ardere.
La capanne si riempirono di fumo assieme ad uno strano profumo di lillà.
E che cos'erano quelle masse nere, che parevano animali coricati?
Nei viali tra le capanne cominciò l'andirivieni degli inservienti con le lanterne …
Nessuno riusciva a liberarsi dal pensiero della morte.
Fissavano il vuoto con gli occhi sporgenti come a cercarvi i fantasmi di chi li aveva preceduti; fragili spauracchi evocati dalla fantasia.
La mattina, mentre ci si aspettava che la luna facesse strada al sole, l'Angelo della morte oscurò il cielo.
E nel buio una miriade di occhi rossi fiammanti di astio per Dio e per gli uomini, scendevano verso il Lazzaretto, minacciosi.
Dalle capanne si levò l'urlo della disperazione.
Però pure l'umile preghiera di una devoto di S. Michele.

- Angelo Santo!
O nostro gran protettore!
Gran capitano delle armate celesti
Io a te ti voglio accanto
In quest'ora terribile.
Lucifero non deve vincere. -
Disse quasi rantolando. Ma la sua voce la sentirono anche nelle case del paese, dove per altri malati si pregava.
Ed allora dalla chiesetta del romitorio si levò un nichelino luminoso, un diamante immerso nel sole.
E a mano a mano che saliva in cielo diventava sempre più grande fino a diventare un altro sole.
E mentre ascendeva, trafiggeva la "notte del maligno" con dardi luminosi.
Nel silenzio risuonò una tromba, producendo un "pauroso alto clamore" .
E la montagna fu avvolta da un gran fumo.
E nel fumo guizzavano "riluttanti fiamme" .
Segno, questo, che Lucifero con i suoi si apprestavano allo scontro con S. Michele e la milizia celeste, di cui egli era "gran capitano".
Lì a poco apparivano due legioni infuocate, disposte l'una di rimpetto all'altra.
Si intravedevano rigide aste, spade scintillanti, cimieri rilucenti, corazze e scudi decorati.
Ancora un suono di tromba. Questo più lungo.
E si alzò il grido della battaglia, seguito dal violento frastuono dell'attacco.
In prima linea Lucifero, seduto su un cocchio, avanzava chiuso in armatura d'oro e diamante.
La massa dei malati e degli inservienti, vedendolo:
- Gesù, com'è possibile che il Principe delle tenebre possa gareggiare con te in bellezza? - Atterriti dalla sua potenza chiusero gli occhi e si prepararono al peggio.
Udirono Lucifero urlare a S. Michele:
- Mal per te. Questa è l'ora attesa per la mia vendetta.
Fatti avanti.
Strappa dal mio cimiero qualche piuma e segnerai, così, l'inizio della tua vittoria.
Dimenticavo che sei addestrato ad essere cane per subire, non padrone per comandare. -
E S. Michele rispose:
- Ingiustamente deturpi "servire Dio" con "schiavitù".
Servir gli stolti questa è schiavitù, com'ora i tuoi seguaci servono te.
Tu non sei libero ma schiavo di te stesso.
Cane legato con catene, nell'Inferno.
E da me, così come hai detto, prenditi sul cimiero questo saluto. -
Così parlando levò in alto la spada e, rapido colpì il cimiero di Satana, che indietreggiò e stordito, cadde sull'elsa della spada.
Stupore e smarrimento prese i suoi seguaci.
Le schiere di S. Michele, gioiose, riempirono la vallata di alte grida.
Si gettarono nella mischia, decisi a farla finita al più presto; spronati dalla "tromba degli arcangeli" che risuonava "negli ampi cieli".
Ed ebbe inizio l'urto orrendo.
Le armi cozzano contro armature, le ruote infuocate dei carri impazziscono, i fulmini micidiali producono frastuoni paurosi mentre i dardi tingono di fuoco il cielo.
Quanto durò lo scontro?
Nessuno potrà dirlo. Un attimo. Un'eternità.
Fatto si è che, più forte dei tuoni e delle urla dei contendenti si alzò la voce di S. Michele:
- Quis ut Deus? - "l'enorme spada alto roteando l'orrido taglio suo calava a compiere intorno vasta strage" .
Satana con i suoi si mise in fuga.
E ancora S. Michele a gridargli dietro:
- Non credere che ti è permesso turbare qui la santa quiete .
Via di qui. E portati con te i tuoi seguaci, nell'inferno -
Tornò il sereno. Il sole splendeva sul Lazzaretto in ordine.
Accanto al letto dell'ammalato della prima capanna, appariva il "Pellegrino con il Cappellaccio e la vozza di acqua appesa al bastone"
- E tu che fai qui? - Gli chiese il Pellegrino all'ammalato, che aveva visto sotterrare tutti i suoi.
- Non vedi? Mi preparo a morire.
Il Pellegrino sorrise. Poi gli passò la mano sulla fronte.
- Morirai quando sarà l'ora.
- Ma…
- Ne zapperai di terra e ne berrai di vino prima di morire.
Nell'anima dei degenti entrò pace e serenità.
Uno degli inservienti - anche di questi il nome è stato dimenticato - vide seduto accanto al malato della prima capanna, al lato nord del Lazzaretto, un Pellegrino. Il grosso cappello in testa, il bastone alto e ritorto all'estremità, " a vozz'" legata al bastone e una grossa croce rossa, in campo bianco, segnata sulla spalla.
Si avvicinò e, rimanendo in disparte, tese l'orecchio:
- Cosa fai? - sente che chiede all'ammalato. L'ammalato:
- Non vedi? Aspetto la morte.
Il Pellegrino sorrise. Poi, profetico:
- Ne zapperai di terra ancora e ne berrai di vino dei Vastini. Non è arrivato ancora il tempo per te.
- Ti va di scherzare. La morte la sento dentro. Mi aggredisce da per tutto -
E il Pellegrino:
- Gesù ti ama. Gesù è la vita - breve pausa. Poi:
- Alzati. Non sei più malato. Rincasa. La famiglia ha bisogno di te.
L'inserviente e gli altri degenti, quasi invidiosi:
- E noi? E noi?… Anche noi abbiamo le famiglie. Non lasciarci morire. Non andartene.
Aiutaci a vivere.
Come d'incanto il Pellegrino si trasformò in un esercito di pellegrini clonati.
Uno per ogni lettuccio; uno accanto ad ogni ammalato. Dissero ad una voce:
- Alzatevi, prendete le vostre cose e tornate a casa. Siete guariti!… E non peccate più. -
E sparve nella luce, della campagna.
Di lì a poco, qualcuno mise i piedi a terra. Si alzò. Si guardò sotto le ascelle… i bubboni erano spariti.
- Miracolo! - Urlò.
Pure gli altri si levarono in piedi. Si guardarono sotto le ascelle…
- Miracolo! - gridarono ad una voce.
Il sacerdote, commosso quanto loro:
- Chi aspettate a prendere le vostre cosucce e rientrare in paese?
S. Rocco ci aspetta in chiesa.
I degenti aiutati dai parenti e dagli inservienti obbedirono. Poi, insieme, con il prete che portava la croce a stilo presero la scorciatoia per il paese.
A mezzo percorso, cominciò come a grandinare goccioloni "radi e impetuosi", che battendo sulla strada arida e polverosa, sollevavano un minuto polverio, gradito all'olfatto.
Dopo alcuni minuti diventarono fitti.
Prima che arrivassero all'entrata del paese pioveva a dirotto.
Ma tutti, invece di prendersela a male, ci guazzavano dentro, felici.
Se la godevano quella rinfrescata.
E la campagna metteva certi respironi "larghi e pieni", che facevan ben sperare.
E in questa esplosione della natura gli uomini sentivano più vivamente come s'era svolto in meglio il destino di ciascuno.
Forse non tutti indovinavano che quell'acqua si portasse via il contagio e avrebbe restituito alla campagna il verde e all'ambiente la frescura di sempre.
Nessuno si pose il problema di come ripararsi dalla pioggia.
Premurosi com'erano di raggiungere la Chiesa e raccontare ai santi protettori la propria esperienza.
Soprattutto di poter presto riprendere la vita interrotta dalla peste.
Dopo alcuni giorni, constatato che la moria era cessata e che la vita riprendeva lentamente secondo ritmi conosciuti, le autorità civili e sanitarie permisero che si riaprissero le porte ai forestieri.
Nelle case dei morti furono inchiodati gli usci.
In attesa che si facessero avanti i parenti, per rivendicarne i diritti di proprietà.
Fu messo su un comitato di cittadini capaci e volenterosi per coinvolgere gli altri nei preparativi dei festeggiamenti della guarigione ottenuta.
Il 15 di agosto verso il tramonto uscì la processione dalla chiesa parrocchiale.
Tutti portavano in mano una torcia al vento accesa. Andava innanzi il crocifero. Dopo di lui il popolo tutto. Avevano il volto coperto con un telo, nel quale avevano praticato due fori, in direzione degli occhi. Vestivano o di sacco o di abiti dimessi, perché logorati e in disuso.
Venivano poi le congrue, tutte. Varie per colori e per abbigliamento e per insegne.
Per ultimo il clero, la piccola frangia rimasta nascosta sotto due baldacchini floreali: la statua di S. Rocco e di S. Michele, i veri trionfatori. Subito dopo le due statue la "Compagnia di S. Michele Arcangelo".
Molti dei malati, strappati alla morte, dall'orlo della fossa - come dimostrazione della propria gratitudine e in segno di penitenza: scalzi e i capelli bianchi di cenere - raggiunsero la chiesina di S. Michele, ripulita dalle brutture.
La notte la passarono in preghiera sulla piana della Cappella di S. Michele.
L'indomani riportarono in processione le statue nella chiesa, dopo aver attraversato per lungo e per traverso il paese con inni e canti religiosi.
Le strade erano parate a festa: i ricchi e i poveri avevano tirato dalle casse e dagli armadi coperte impreziosite di colori e ricami. Le case dei poveri erano state avvivate con rami e drappi dai vicini benestanti.
Da molte finestre piovevano petali di fiori sulle statue.
Il paese tutto, muto e deserto, tendeva l'orecchio.
Alcuni, per vedere meglio il corteo, salivano sui tetti.
Dalla quella volta tutte le famiglie presero ad appendere a capo al letto l'immagine di S. Michele che rinfodera la spada e quella di S. Rocco che mostra la fistola sanguinante nella gamba.
Non per abitudine.
Per fede.

Così come mi è stato raccontato da Z' Kol' F'lipp', Z' M'kèlangh'l' M'rièll' e da Z' Mink' Vèrèfridd'.

Testo: Giuseppantonio Cristofaro
Digitazione dati: MariaLucia Carlone
Programmazione HTML: Vittorio Sauro & Walter La Marca
Fotografie: Walter La Marca

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