RipAmici 2000 ovvero gli amici di Ripabottoni
ovvero gli Amici di Ripabottoni - Italy

Joe Fiorito
Le voci di mio padre

Garzanti Libri s.p.a., 2000


Non abbiamo resistito alla tentazione di recensire il magnifico libro di Joe Fiorito e di dare a tutti un assaggio delle sue storie.
Ci piace immaginare l'autore e noi, seduti intorno ad un camino, uno dei tanti camini di pietra di Ripabottoni, e sentire la sua voce che racconta. La fiamma viva che disegna arabeschi rossastri sulle pareti, il vento che fuori dalla finestra ulula e fischia come un'anima dannata per l'eternità, un bicchiere di vino in mano, un pugno di ceci abbrustoliti, un pezzo di formaggio sul tavolo e… le parole entrano nell'anima, le parole diventano realtà, il film del suo racconto si proietta davanti agli occhi della nostra fantasia, della nostra mente… e…

(dal libro "Le voci di mio padre" di Joe Fiorito - Ed. Garzanti - pag.266)
Quando si ammalò, prima che la gravità del male si manifestasse appieno, quando l’idea di una fine imminente e inevitabile sembrava ancora qualcosa di esagerato, io partii per l'Italia. Per recarmi a visitare il paesino di mio nonno.
Ripabottoni, nella valle dei Biferno.
Partii con una vaga idea in testa: pensavo che fosse possibile vedere qualcosa che avrebbe aiutato mio padre a morire. Lui era curioso, lo so, del paesello natio di suo padre, ma non aveva mai avuto i soldi necessari per un viaggio in Italia. Forse c’era, a Ripa, qualche indizio su di noi, una qualche risposta a una domanda non formulata.
Mia moglie e io andammo in aereo in Francia, approfittando di una tariffa ridotta, e poi proseguimmo in macchina. A bordo di una piccola automobile di latta, presa a nolo, varcato il confine imboccammo un’autostrada bordata di fiori. Procedevamo al massimo della velocità, ma grosse auto tedesche, nere e silenziose, dai finestrini oscurati, ci sorpassavano come se stessimo fermi.
Pernottammo a Rapallo. L’indomani mattina prendemmo il caffè a un tavolo all’aperto, in una piazzetta, mentre fioristi e fruttivendoli allestivano le loro bancarelle. L’aria soffice come baci. E poi un’altra lunga scarrozzata, rasentando Roma, diretti a Campobasso. Mio padre diceva che di là venivamo, come uno di Westfort direbbe che viene da Lakehead….

…Partimmo per Ripabottoni l'indomani mattina. C'è solo una strada. Guidavo lentamente. La strada era stretta, tortuosa, in salita. I campi di grano erano dorati. Papaveri come macchie di sangue sulle prode dei fossi.
Non c’era altra strada che quella.
Quel vecchio edificio in muratura... sarà stato un granaio cent’anni fa? Mi irrigidii. I peli del braccio mi pungevano, il sudore mi colava sulla nuca. Silvaggio, eri qui, tu?
D’un tratto, alle mie spalle, il suono di un claxon. Sta sopraggiungendo un camion. Il camionista mette fuori un braccio, agita il pugno chiuso, vuole sorpassarmi. Vuole che gli ceda il passo. Oh, no! Figlio di puttana, un'altra volta, no!
Fermai, scesi a terra e mi appressai con un sorriso. Non intendevo sparargli. Il camionista era disarmato. Indicai la strada innanzi a noi.
- Ripabottoni?
- Ripabottoni, sì, si.

Lasciai che mi sorpassasse.
Se Giuseppe Silvaggio, quel giorno, avesse fatto altrettanto, non sarebbe mai andato in America.
Arrivammo a mezzogiorno. Il paesino era deserto, tranne per una vecchietta vestita di nero, con un cestello in mano. Mi rivolsi a lei cortesemente. Lei mi squadrò, sospettosa. La conversazione si svolse, più o meno, come segue:
- Scusate, signora, sapete dirmi dove posso parcheggiare la macchina?
- Cosa siete venuto a fare, qui?
- Posso parcheggiare là, vicino alla chiesa?
- Chi siete? Cosa ci fate qui?
- Credo che potrei avere dei parenti in questo villaggio.
- Come vi chiamate?
- Fiorito.
- Ah, Fiorito!

Mi rivolse un largo sorriso. Il mio nome non era un handicap, lì: anzi, era un lasciapassare. La vecchia si appressò, sollecita, aprì lo sportello, mi prese per un braccio, mi disse che potevo lasciare la macchina lì dov’era, ma mi consigliò di chiuderla a chiave. Poi ci accompagnò all’ufficio dell’anagrafe, in municipio. Prima che me ne rendessi conto, una giovane donna stava già tirando giù vecchi registri dagli scaffali, sollevando una nuvola di polvere acre, e lì, su quelle pagine ingiallite, c’erano i nomi — a zampe di gallina — dei vecchi Fiorito: Vittorio, Giuseppe, Matteo, Vito, Filomena.
Gli angoli delle pagine erano stati consunti da generazioni di ufficiali di stato civile, i quali, al pari di questa impiegata, avevano l'abitudine di leccarsi il dito prima di girare un foglio.
Nel giro di quindici minuti, ottenni copie dei certificati di nascita di nonni e bisnonni. Nel giro di un ora, l’intero paese sapeva chi eravamo. Ovunque andassimo, i vecchi — non sembrava che ci fossero altro che vecchi, in giro — ci salutavano e ci chiedevano: - Li avete trovati i vostri parenti o non ancora?
Non esattamente. Mi ero reso conto che sarebbe stato impossibile apprendere con chi fossimo imparentati senza conoscere il soprannome di mio nonno, cioè quel - nome sussidiario - conferito alle varie diramazioni di un clan numeroso allo scopo di rintracciare i rapporti di parentela ed evitare i matrimoni fra consanguinei. Mio nonno era un Cocciolongo, un Serafino, un Lepore? Il suo soprannome - ammesso che ne avesse uno — era andato perduto. Senza di esso, non c’era assolutamente modo di sapere con chi eravamo imparentati.
Il cognome Fiorito — rarissimo e fonte di problemi in Canada — era invece tanto comune, lì a Ripabottoni. come da noi Smith.
Il giorno dopo, stavamo camminando per il corso diretti alla piazza. Una donna anziana, munita di borsetta e sporta a reticella, uscì di casa. Il suo portone era verde, e il battaglio era una mano d'ottone che stringe una palla. Scattai una foto a quel portoncino. La donna venne verso di me con occhi di fuoco.
«Cosa vi salta in mente
Le spiegai che non avevo cattive intenzioni, ero semplicemente affascinato da quel battaglio.
Lei era fieramente adirata.
Le dissi che mi trovavo lì, a Ripabottoni, per cercare le tracce della mia famiglia. Ciò valse a calmarla. Mi scrutò, come se la mia faccia fosse un rompicapo.
- Quale famiglia?
- Fiorito.

Oh, be’, disse lei. Feci il nome di mio nonno e mia nonna, e lei annuì. Sì, quei nomi potevano essere solo originari di lì. Ma era perplessa. Vide il macellaio che usciva dal suo negozio per andare a sedersi sul muricciolo dirimpetto. Lui sa qualcosa dei Fiorito.
Vieni qua, gli disse a cenni. E' urgente.
Il nome del mio bisnonno era Giusepp’Antonio; era sposato con Anna Di Fabio. Allora il macellaio fece una telefonata e io fui, là per là, presentato a un vecchio che si chiamava Giusepp'Autonio Fiorito, il quale era sposato con Anna Di Fabio. Erano entrambi piccoletti, ricurvi e rugosi, e non sapevano cosa dire, in soggezione di fronte a uno straniero alto di statura, sbucato fuori dal nulla, il quale asseriva di esser loro parente e magari era venuto a reclamare, hai visto mai? Un'eredità.
Non m’importa quanti rami ci fossero, nella nostra famiglia, né m’importa quanto tempo è passato, non potete dirmi che non siamo, in qualche modo, imparentati. Loro volevano andarci cauti, ma io ero talmente stordito che a malapena riuscivo a respirare.
Tornammo all’anagrafe. Trovai il certificato di nascita dei due figli di Giusepp’Antonio e Anna Di Fabio, a entrambi i quali era stato imposto il nome Matteo: il primo era morto appena nato, il secondo era mio nonno. Venne così chiarito un vecchio errore. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, mio nonno aveva scritto in Italia per ottenere una copia del proprio certificato di nascita, per il semplice motivo che, essendo italiano, era «persona sospetta» in Canada; per errore, gli venne spedito il certificato di nascita del fratello omonimo, il primo Matteo.
Ma non c’era nessuno a Ripabottoni, neppure il più vecchio abitante, che ricordasse alcunché del Matteo Fiorito che da giovane era partito per l’America, o per un paese americano più a nord dell’America.
Sul registro dell’anagrafe, nella colonna intestata - annotazioni -, accanto ai nomi di alcuni era segnata una data e la dicitura - emigrato -. L’impiegata era stupita: accanto ai nomi di Silvaggio Giuseppe, Fiorito Filomena e Fiorito Matteo non c’era scritto niente. Nessuna data. Nulla. Il che io interpretai così: sono partiti in fretta e furia. Partirono di nascosto. E all’epoca della loro partenza, nessuno sapeva dove fossero andati, e nessuno si curava di saperlo. Né a nessuno importava se sarebbero tornati oppure no.

Non proprio risposte esatte, ma quasi.
Mi fu mostrata la casa dove un certo Giusepp’Antonio Fiorito aveva abitato: il nome Fiorito era inciso sopra il portone d’ingresso. Forse era la casa del mio bisnonno.
Una casa tipica del paese, abbandonata da almeno una generazione. Credo che tutti in paese desiderassero che fosse davvero la casa del mio bisnonno. Sia per il mio, sia per il loro bene: il paese è molto povero, ha bisogno di denaro fresco, ha bisogno di riparazioni edili.
Il pianterreno della casa era stato una stalla per il mulo; la cucina si trovava al primo piano, al secondo piano c’erano due camere da letto. I pavimenti erano freschi, di mattonelle a mosaico, dal disegno intricato, che gli davano l’aspetto di un ricco tappeto.
Tutte le case del paese erano così.
Il paese stesso sorgeva sul fianco di un colle, con le case che - ricadevano - giù per la pendice, verso la vallata, al modo in cui uno scialle - ricade - dalle spalle di una donna. Fotografavo ogni cosa, e spiegavo: Questo è il paese natale di mio nonno, e mio padre è malato. Quando torno in Canada, queste foto lo divagheranno.
C’è un campo, alla periferia di Ripabottoni, attraverso il quale è stata costruita una strada. Questa strada è fiancheggiata da alberi. Dal paese non si vedono le tombe, ma quegli alberi te le indicano. Se vedi la strada, vedi gli alberi; se vedi gli alberi, sai che le tombe sono là.
La strada che porta al cimitero è lunga abbastanza per un corteo funebre, abbastanza lunga per darti tempo di meditare sul tuo lutto durante il tragitto.
L’auto ha sollevato un nugolo di polvere, che resta sospesa nell’aria allorché ci fermiamo presso i cancelli d’ingresso del cimitero. Due operai ridono fra loro. Uno è giovane, bruno, magro, l'altro è grasso, calvo e lento. Entrambi sono molto robusti. Stanno sarchiando le erbacce, fumando sigarette, potando le siepi.
Il più giovane ci rivolge la parola. - Avete bisogno d'aiuto? -
Il ciccione si appoggia al rastrello. Non c’è una nube in cielo. L'aria odora di vita e di morte, di terra fresca e fiori marci. In una giornata come questa sia il fumo della sigaretta sia le anime salgono diritte in cielo.
I due uomini si mostrano cauti. Non ci hanno mai visti prima d’ora. Potremmo essere in lutto. Potremmo avere gravi motivi per visitare il paese. O sennò potremmo essere, semplicemente, turisti di passaggio. Mi scrutano in faccia, alla ricerca di indizi. Sembrano incerti, come tutti i becchini, fra rispetto e irriverenza.
- Cerco i miei parenti. Un paio di ramarri verdi sbucano da una fratta. Hanno il colore degli steli d’erba, di delicate foglie d’erba primaverile: la loro pelle è altrettanto soffice. Uno dei ramarri sfiora il piede di Susan, che calza sandali aperti.
Lei dà un balzo, saltella su una gamba per non schiacciare l’animaletto sotto il piede. La sorreggo. Lei ride.
Irriverenza è, dunque.
- Ce ne sono un bel po’, di parenti, al camposanto. Anzi, tutti qui sono parenti a qualcuno. Chi è che cercate, voi, in particolare? Non mi va di fare il nome di Silvaggio. Cent'anni non sono un lungo periodo di tempo. Questi uomini potrebbero avere una memoria simile alla mia, con una differenza di vitale importanza: potrebbero essere parenti dell’uomo che Giuseppe Silvaggio ha tolto dal mondo. Dico, quindi: - Fiorito, Del Vecchio, Di Fabio.
- Ce n’è quanti ne volete, di questi. Potete scegliere.
Le tombe sono ben tenute e adorne di fiori freschi: fiori in vasi, in barattoli di vetro o di latta. Stando a quei fiori, noi moriamo, ma seguitiamo a vivere per l'eternità; stando alle fotografie sulle lapidi, noi restiamo nella memoria tali quali eravamo da giovani allorché la vita era piena di promesse. In questo cimitero i morti hanno l'età che avranno in paradiso….


La famiglia Fiorito Le voci di mio padre è un libro fatto di persone e di storie vere, storie di famiglia dense di liti e tenerezza, ironia e dolore. Eroe di questa saga è il padre del narratore, Dusty, figlio di Matteo e Angela, fuggiti dal Molise alla fine dell’Ottocento e approdati tra i boschi del Canada.
Portalettere simpatico e popolarissimo, suonatore di trombone, banjo e contrabbasso nei caffè e nelle balere, bevitore metodico, Dusty è soprattutto un narratore irresistibile, una miniera di aneddoti memorabili, a volte drammatici a volte imprevedibilmente comici.
Ora che Dusty soffre in un letto d’ospedale, tocca al suo primogenito, Joe, fare in modo che quelle storie continuino a vivere: e sono memorie di liti antiche ma mai dimenticate, di silenzi e vergogne che percorrono le generazioni, dei profumi e sapori dell’infanzia, di fatiche e di feste, di sbronze e di risse, della miseria contadina e del razzismo contro gli immigrati italiani e della crisi del ‘29 e del proibizionismo...
Nel misurarsi con la figura del padre, per certi aspetti mitica ma anche responsabile di alcuni traumi che hanno segnato la sua vita, Joe Fiorito racconta con sincerità, compassione e tenerezza la ricerca delle radici, e illumina i nostri affetti più segreti e profondi: i sentimenti che ci legano, nel bene e nel male, ai nostri famigliari.


Cosa aggiungere? E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Lo trovate in libreria al prezzo di £.32.000 e...
Buona lettura dallo Staff di RipAmici 2000

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