L'Aria, i Colori, la Frescura, la Quiete
della collina molisana
Ripabottoni, borgo medioevale: 613 m slm, 40 minuti da Termoli, 30 minuti da Campobasso




Padre

ALESSANDRO CRISTOFARO

(Ripabottoni 28 Luglio 1921 - Campobasso 15 Novembre 2002)

Pietro Ramaglia insigne clinico

tratto da'
ARCHIVIO STORICO MOLISANO Anno IV/V - Dicembre 80/81.
Edito a cura dell'Associazione di Storia Patria del Molise

(Pagine da 161 a 165)


Ramaglia non poté fare a meno di convenirne; e pur non dando grande importanza all'ascesso, non disconobbe che si dovesse tenerlo di mira.
Ferdinanclo II finì col mostrar chiaramente di non aver più fiducia nei medici e nelle medicine, mentre i medici si sentivano impotenti ad attenuare i dolori al femore e all'inguine. Il dottor Longo, visto inutile ogni risolvente, dichiarò francamente a Ramaglia che, per dovere professionale e per declinare ogni responsabilità, credeva necessario procedere immediatamente all'operazione, potendo ogni altro ritardo riuscire fatale. Il Ramaglia si mostrò titubante.
Uscendo dalle sale dell'lntendenza, il duca di Calabria raggiunse il Longo e gli disse: "Don Niccola, io non capisco niente; questa opposizione all'operazione mi scoraggia; il morbo cammina e le sofferenze aumentano. Io fido su di voi. Il re ha per voi molto deferenza, vi ascolta volentieri, parlategli chiaro, ditegli che l'operazione è necessaria e si deve procedere senzo indugio" (13). Il Longo parlò al re di una piccola operazione e il re si spaventò; ma il coraggioso dottore non si perdé d'animo: "Maestà - soggiunse - la sventura vostra in questa contingenza è l'essere re. Se foste un infelice gettato in un ospedale a quest'ora sareste probabilmente guarito". Il re, riavutosi dalla prima impressione, rispose:
"Don Niccola, mo me trovo sotto; facite chello che vulite".
Operazione si, ma eseguita da chi? Chiamare un chirurgo da Napoli - faceva osservare la regina - è allarmare la capitale e tutto il Regno; e chiese un bravo chirurgo di provincia. Dietro proposta del Longo si ricorse a don Vincenzo Modugno di Bitonto che, alla scienza ed al lungo esercizio, univa una mano invidiabile.
Non se ne fece nulla, perché la regina e Ramaglia presero ad insistere che si partisse a qualunque costo, mentre il re non voleva partire: "Il suo orgoglio di Sovrano e il suo puntiglio di napoletano si ribellavano al pensiero che i liberali avrebbero gioito, vedendolo tornare a Napoli in quello stato" (14).
A vincere le sue riluttanze la regina e Ramaglia fecero venire a Bari il padre Ludovico da Casoria, il quale parlandogli "dei suoi doveri di principe verso Dio e verso i sudditi, e dei suoi doveri di capo di una numerosa famiglia che adorava, lo consigliò, con efficace

(13) Ivi p. 491
(14) Ivi p. 492

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facondia di frate e di napoletano, alla partenza. Il re aveva nel padre Ludovico immensa fiducia, e le parole di lui finirono per persuaderlo, come al compimento di un dovere politico religioso e domestico" (15).
Il giortro 7 marzo fu fissata la partenza, e per mare, sul "Fulminante" - nave di maggiore velocità e grandezza del "Tancredi" - con medico e chirurgo di bordo Cristoforo Capone, "un giovane molto stimato nell'arte sua", che il re chiamò e gli disse "Considera che io sono marinaio, osservami e curami come faresti con un marinaio, ma dimmi la verità".
Capone l'osservò e non fu per lui un mistero trattarsi di una suppurazione presso l'inguine; essere la marcia raccolta in quel punto, la causa delle sofferenze e della febbre; doversi subito procedere ad una piccola incisione.
Ramaglia opinò che non si dovesse eseguire l'operazione a bordo e il viaggio proseguì. Mercoledì 9 marzo fu l'ultimo di quella navigazione calma e tranquilla. Accanto al re vi erano i medici Ramaglia, Leone e Capone, a cui si aggiunsero don Franco Rosati, don Felice de Renzis e don Stefano Trinchera, i quali udita la relazione di Ramaglia e di Leone e visitato l'infermo, convennero trattarsi di "uno dei più gravi casi di coxologia, con sospetti di piemia: doversi, senza indugio, operare un primo taglio alla coscia".
Il consiglio medico commise al Capone, che era il più giovane, di eseguire l'operazione. Ma la prima incisione non riuscì, perché il Trinchera s'era sbagliato sul punto del taglio. Invece il secondo taglio, che il Capone eseguì felicemente, ebbe esito "meraviglioso, perché uscirono parecchie libbre di pus. L'operazione confermava la diagnosi, ma troppo tardi".
L'uscita del pus recò qualche sollievo all'infermo e confortò le speranze della regina nella guarigione. Ma il miglioramento non durò a lungo, e dopo cinque giorni dal secondo taglio, si manifestarono i primi segni, i più caratteristici, dell'infezione purulenta in tutto l'organismo. Il morbo invadeva organi esterni e interni; congestioni polmonari sotto l'ascella destra e in altre parti del corpo si succedevano, senza che gli umani rimedi avessero efficacia alcuna.
Il re non si faceva più illusioni e si preparava alla morte con rassegnata dignità, ricevendo tutti i conforti della religione cattolica.
Il 22 maggio, stendendo una mano sul Crocifisso del confessore,


(15) lvi, p. 492.

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l'altra alla regina in segno d'addio, reclinò il capo sul lato destro e spirò.
L'orologio segnava l'una e mezza dopo il mezzogiorno. Era domenica (16).

Tipo del medico cortigiano

Il De Cesare, quando parla di Pietro Ramaglia, dà l'impressione di considerarlo un uomo presuntuoso - presunzione che affonda le sue radici nella riconosciuta scienza medica. Il Ramaglia, "celebre medico (o.c.,p.457)", "insigne clinico" (p. 4I6), "aveva la debolezza, cresciuta con gli anni, di credere d'intuir le malattie Senza esaminare l'infermo" (p. 455).
Per non provocare emozioni al re, oltre alla regina, anche Ramaglia non consente che illustri suoi colleghi visitino il malato, ma presume che il consulto avvenga sulla relazione che egli ne fa; e i medici si sentono offesi e umiliati: c'è chi ascolta la relazione e l'approva e poi la critica (cf. p. 479); e chi apertamente mal patisce il capriccioso divieto: "Il Lanza mal patì il capriccioso divieto e, vivace e franco com'era, non celò il suo malcontento, soggiungendo che non era il caso di farlo andare a Caserta, perché anche a Napoli avrebbe potuto leggere una relazione e dare il suo parere. Udita la relazione, borbottò ironicamente:" 'il re starà bene, fatelo nutrire di latte di donna' (p. 506).
Ma "il capriccioso divieto" non era di Ramaglia: "La regina volle che nessuno dei tre [i medici Lanza e Prudente e il chirurgo Palasciano] dovesse vedere l'infermo: avrebbero manifestato il loro parere su relazione del Ramaglia" (ivi). Facciamo notare, inoltre, che il Lanza criticò il modo della regina, ma ritenne valida la relazione del Ramaglia, se a lettura terminata - dopo lo sfogo dell'orgoglio punto - poté formulare un giudizio esatto della malattia, diagnosticando: "Ferdinando II morirà dopo aver contemplato il suo cadavere; non c'è più rimedio; la fitiriasi si svilupperà subito, in seguito alla piemia" (ivi).



(16) Per altri particolari, oltre alla malattia del re, ma anche circa le accoglienze a lui riservate lungo l'itinerario, i festeggiamenti delle nozze dei principi, con il contorno di numerosi personaggi dalla più disperata estradizione, cf. il più volte citato De Cesare Raffaele, o.c., pp. 435-518.

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ll De Cesare presenta Ramaglia come "vecchietto vispo ed elegante", più amante dei suoi comodi che della salute del re:
"Per maggior sicurezza la regina, fin dal secondo giorno, aveva telegrafato al dottor Ramaglia di partir subito per Lecce. Ma il Ramaglia arrivò cinque giorni dopo. Scese dall'albergo, oggi del Risorgimento, e di là, e in marsina e cravatta bianca, si recò all'lntendenza, tra la molta meraviglia di quanti videro questo vecchietto elegante e vispo, che nessuno conosceva, non alto di statura, ma dall'aspetto signorile e sorridente accompagnato da un giovane non più alto di lui. Quando poi si seppe che il primo era don Pietro Ramaglia, e il secondo il suo assistente Domenico Capozzi, che doveva più tardi acquistarsi un nome da uguagliare quello del maestro, cominciarono i primi sospetti sulla gravità della malattia. Giunto al palazzo, il Ramaglia fu ricevuto dalla regina, che non gli volle far vedere subito il re per non allarmarlo, ma lo informò largamente del suo stato" (p. 455).
Questo desiderio della regina - di non far vedere subito l'ammalato al Ramaglia - non indebolisce la insinuazione del De Cesare che accusa don Pietro di "intuir le malattie senza esaminare l'infermo"? E non dimostra anche la fiducia dei colleghi da parte di don Pietro, se questi, nonostante il divieto, ebbe "un primo colloquio o consulto", con il medico curante don Giuseppe Leone, medico leccese?
Il De Cesare appesantisce la mano, quando definisce Pietro Ramaglia medico cortigiano:" Il Ramaglia aveva tutto il tipo del medico cortigiano: epperò cercava innanzi tutto d'illudere sé stesso circa la gravità del male, se pur non si voglia ritenere quel che molti ritennero fin d'allora, ch'egli non avesse capita la malattia, e per non confessarlo, dichiarasse più tardi immaginari i primi dubbi del dottor Niccola Longo. Era loquacissinto, sempre disposto al riso, alla barzelletta e all'adulazione. I maligni dicevano che, dopo il desinare, rifiutasse di far visite" (p. 456).
Qui ci sembra proprio che il De Cesare raccolga soltanto pettegalezzi. Dallo stesso suo resoconto della malattia del re appare evidente che il Ramaglia non illudeva sé stesso, ma era, invece, preoccupato del malessere del re, sin dall'inizio e perciò sconsigliò il viaggio:
"ll dottor Ramaglia, qualche mese prima, aveva scoperto intorno al collo di lui un'eruzione erpetica di un rosso vivace, che lo impensierì e prescrisse uno cura che non fu eseguita..." (p. 416).


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Di Pietro Ramaglia una cosa è certa:"Era il clinico più ricercato. della Capitale; la sua fama scientifica aveva varcati i confini del Regno, e dalla sua scuola uscirono i più eminenti clinici del nostro tempo. E, cosa certissima, non fu mai ricco" (17).

Dotto, senza superbia

Pietro Ramaglia è una "figura storica",nata e cresciuta alla scuola dei fatti: "Ratio et observazio sunt medicinae cardine".
Grande osservatore di fatti, sembrerà "favola" ai posteri "l'abnegazione e le improbe fatiche durate dallo illustre clinico napoletano per raggiungere il suo ideale".
Una vita tutta di lavoro e di gloria, scienziato "illustre", "integerrimo" cittadino: "Genio, lavoro, abnegazione, sapienza, carità, severa alterezza senza superbia, umiltà senzo codardia".
E' il giudizio di uno che prima di aver conosciuto Pietro Ramaglia come scienziato,lo "contemplò" come uomo ed ebbe l'onore di essergli stato a fianco e di aver frequentato la sua scuola: Giuseppe Biondi (Cerreto Sannita l82l - Napoli l90l) benemerito della salute pubblica e direttore degli ospedali riuniti di Napoli (18).

Nato a Ripabottoni il 31 marzo 1802 da Francesco e Veneranda de Iulio, di umili condizioni, Pietro Ramaglia frequentò le scuole elementari nel proprio paese e continuò per alcuni anni gli studi nel Seminario di Larino, che aveva nome tra i primi per il genio di Francesco Brencola, professore di filosofia e rettore, martire politico del programma liberale del novantanove, e "si prognosticò fin d'allora che le laboriose fatiche di quel caro giovane non sarebbero state senza premio". (19)
Con l'attestato di "alunno studiosissimo", inizia la frequenza di


(17) Masciotta Giambattista, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, vol. IV, Cava dei Tirreni 1952, p. 363.
(18) Cf. Biondi prof. Giuseppe, Poche parole dette sul feretro dello illustre Pietro Ramaglia, [Napoli 1875]. per il Biondi, cf.Zazo Alfredo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli [1973], P.47.
(19) Cf. Bucci Diodato, Necrologia, in Il Frentano - Giornale politico, scientifico, letterario - diretto dal cav. prof. Giuseppe Barbieri, con la collaborazione di illustri letterati italiani ed esteri. - Anno V, Larino, 19 settembre 1879, nn. 5 e 6, p. 47.(8) Ivi, p. 467


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