Le GRANDI FIGURE
della medicina molisana
PIETRO RAMAGLIA
Autore: Italo Testa

Il personaggio che ho scelto per la rubrica Le grandi figure della medicina molisana da pubblicare in questo numero del Bollettino è il prof. Pietro RAMAGLIA, notevole figura di medico e di maestro che, pur avendo operato ai massimi livelli a Napoli per circa 40 anni, nel periodo borbonico prima e in quello unitario poi, è stato poco ricordato nella sua terra d’origine, per cui risulta sconosciuto ai più.

La casa natale di Don Pietro Ramaglia Parlare di Pietro Ramaglia significa parlare di storia e di storia della medicina. Lo troviamo citato nei testi di storia che trattano dell’ultima fase del Regno delle Due Sicilie, in quanto, medico della corte borbonica , è stato presente in molti degli eventi importanti della vita del Re Ferdinando II.

Non si interessava di politica e per questo motivo, oltre che per i suoi grandi meriti professionali, era stato chiamato a questo incarico. Essere medico di corte a Napoli non era facile, sia per il carattere sospettoso del re che vedeva ovunque minacce alla sua persona e a quella dei suoi familiari, data la situazione storico-politica del momento, sia perché, malgrado il distacco con cui esercitava il suo ruolo a corte, era inviso ai colleghi impegnati politicamente nell’opposizione e a quelli invidiosi dei suoi successi professionali.

Riferiscono i suoi allievi che era costantemente oggetto di calunnie con epigrammi e satire che peraltro lo lasciavano assolutamente indifferente.

Raffaele de Cesare, nella sua pregevole opera, ormai introvabile, "La fine di un Regno”, nel parlare di Ramaglia lo ha definito in un passaggio, “medico cortigiano”, accusa oltremodo ingiusta, se si pensa che lo stesso, in altri passi del libro riferisce che il Nostro dava ai sovrani risposte franche che mal suonavano alle regie orecchie.
Riferisce inoltre che quando come medico fu interpellato per conoscere se le condizioni di salute del re gli potevano consentire di affrontare un viaggio nelle Puglie per accogliere la futura regina Maria Sofia, sposa del figlio Francesco, il Ramaglia rispose con molta franchezza che, vista la stagione non era il caso che il re affrontasse il viaggio in considerazione del suo stato di salute. A questa risposta la regina si risentì e lo congedò con freddezza e il re gli disse “Don Pie’, quant’hai avuto pe’ darm sto consiglio?” e decise, nonostante il consiglio del medico, di partire per quello che sarà il suo ultimo viaggio.

In medicina è stato uno dei propugnatori del metodo sperimentale anatomo-clinico e fondatore della scuola positivo-naturalistica napoletana che si opponeva alle teorie vitaliste allora in voga e sostenute a Milano dal Rasori e a Bologna dal Tommasini con la sua “Nuova dottrina medica italiana”. Per comprendere appieno l’importanza della posizione del Ramaglia in campo medico è necessario Studi sulla meningite che richiami, sia pur brevemente, la situazione della medicina agli inizi del XIX secolo.

Dalla metà del 1700 il pensiero medico europeo si dibatteva, come del resto tutto il pensiero filosofico con i suoi riflessi anche sulla politica, tra due orientamenti: il meccanicismo e il vitalismo.

Il primo riteneva che il corpo umano funzionasse meccanicamente in virtù dello spirito che, situato nel cervello, influenzava gli organi e le loro funzioni; il secondo riteneva che l’anima permeasse tutto il corpo, le cui funzioni non avvenivano secondo le leggi della chimica e della meccanica, ma in base a una legge teleologica chiamata “il principio vitale”.
Alla luce di queste teorie venivano interpretate le malattie e stabilite conseguentemente le terapie.

Agli inizi dell’800 prevalse in Europa e in Italia la teoria vitalistica che partendo dagli studi di von Hallen sullo stimolo nervoso e la contrazione muscolare, fu elaborata da Cullen e Brown in Scozia con “La teoria degli stimoli”; secondo questa non esiste la vita senza gli stimoli che provengono dall’interno e dall’ambiente, ai quali l’organismo reagisce per mezzo del “principio vitale” che si chiama “eccitabilità”. Salute e malattia non erano considerate categorie alternative, ma solo diverse modalità della vita. Il livello normale di eccitabilità equivaleva a salute. Il discostamento in eccesso “stenia” e il difetto “astenia” rappresentavano la malattia.
La terapia doveva tendere a riportare l’equilibrio: per la stenia bisognava deprimere, per l’astenia bisognava eccitare; i mezzi erano: nel primo caso i salassi, nel secondo il vino e i bagni.

Rasori aveva introdotto in Italia e in Germania le teorie “braunoniane” modificandole con la teoria del “contro-stimolo”, in base al quale esistevano nell’organismo una dìatesi stenica e diatesi astenica, l’equilibrio tra le diatesi era la salute; la malattia era lo squilibrio che avveniva per la prevalenza di una diatesi sull’altra a seguito di stimoli esterni. La terapia mirava a ristabilire l’equilibrio con un contrastimolo. Per individuare la malattia non era necessario indagare sulla sintomatologia: bastava poco per comprendere il carattere della diatesi prevalente; non serviva la semeiotica, né l’anatomia patologica; la malattia era sempre generale, mai locale.
La terapia della patologia stenica era il salasso o il sanguisugio, l’emetico (tartaro stibiato), la digitale purpurea a forti dosi per il suo effetto emetico e catartico (non considerando che questi sono gli effetti tossici della digitale).
Il Tommasini aveva portato alcune modifiche alla teoria del Rasori, aggiungendo alla teoria del controstimolo una teoria che prevedeva anche uno stato patologico locale basato sull’infiammazione, teoria tanto esasperata da far rientrare nell’ambito della flogosi anche lo stato di gravidanza.
Molti in Italia, soprattutto in Toscana e a Napoli, si schierarono contro queste teorie, rifiutando tutto ciò che non si attenesse ai fatti clinici concreti. Pietro Ramaglia fu tra questi e facendo suo il principio vichiano verum et factum sunt idem si dedicò allo studio dell’anatomia normale per passare all’anatomia patologica, disciplina che introdusse a Napoli, seguendo gli insegnamenti di Morgagni, studiati sulla sua magistrale opera del 1761 De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis.

Nato a Ripabottoni il 31 marzo del 1802 da Francesco e da Veneranda De Julio, persone non agiate, compì gli studi elementari nel paese natale. Avendo dimostrato ottima predisposizione, fu inviato nel seminario di Larino a continuare gli studi. Uscito con l’attestato di alunno studiosissimo (aveva imparato benissimo il latino che parlava correntemente ancora in età avanzata), fu inviato a completare la sua preparazione nel Collegio privato del prof. Domenico Trotta in Toro. A quell’epoca le scuole private erano numerosissime nel Regno delle Due Sicilie. Quella di Toro, molto quotata, raccoglieva giovani molisani e delle province limitrofe.
Domenico Trotta, persona di notevole cultura, eclettico, insegnava filosofia, diritto teoretico e positivo e preparava i giovani ad affrontare gli studi universitari. Il giovane Ramaglia aveva una preparazione prevalentemente mnemonica ed il maestro lo sottopose a una serie di prove miranti a verificare quale fosse il suo vero grado di apprendimento. Le prove risultarono positive e fu accolto nella scuola e particolarmente curato come un figlio.
Ramaglia non dimenticò mai il suo maestro ed è conservata una bellissima lettera da lui scritta ai figli, quando ebbe la notizia della sua scomparsa.
Riferisce il prof. Nasca, suo amico e collega, che il giovane Ramaglia all’età di 15 anni, decise di studiare medicina dopo l’incontro con un “distinto” medico che lo aveva colpito in modo particolare. Completati gli studi a Toro, si recò a Napoli dove fu accolto come interno nel Regio Collegio Medico, dal quale uscì laureato dopo tre anni. Visse il periodo da studente tra ristrettezze economiche, ma anche tra l’apprezzamento dei professori per il suo acume e la tenace applicazione allo studio. Tra i suoi maestri anche due cattedratici molisani, Cosmo de Horatiis e Francesco Pietrunti. Laureato entrò, in seguito a concorso, quale assistente nell’ospedale degli Incurabili, all’epoca anche sede della Facoltà di Medicina.

Qui si dedicò con particolare interesse allo studio dell’anatomia normale e patologica, perché vi trovava concretezza di nozioni chiare e positive e non vaghe teorie. Il suo discepolo e amico, il prof. Biondi, raccontava che essendo proibito negli Incurabili trattenersi la sera nei teatri anatomici, si faceva chiudere di nascosto nelle sale anatomiche dove passava tutta la notte a sezionare e studiare i cadaveri. All’alba veniva fatto uscire dal compiacente infermiere addetto che si chiamava Nicola Maione il quale, da vecchio ottuagenario, raccontava ancora questi episodi.

Lo studio dell’anatomia patologica gli aveva confermato che quando l’organismo era alterato nella struttura, era alterato anche nella funzione; di qui la necessità dell’attentissima “osservazione” del malato per comprendere le alterazioni funzionali, per diagnosticare la lesione organica da verificare, eventualmente, al tavolo settorio. Era questo il metodo anatomo-clinico-sperimentale che rifiutava ogni teoria più o meno fantasiosa o filosofica.

La sua sete di conoscenza e la sua grande preparazione lo portarono a divenire professore agli Incurabili e medico di chiara fama, tra i primi a Napoli, tanto che divenne, solo per i suoi meriti, medico della Corte Borbonica.
Aveva intanto sposato la signorina Marianna Jambelli da cui aveva avuto due figlie.

L’essere divenuto medico di corte non aveva modificato il suo modo di essere medico e docente.;
rimase di carattere aperto, mai sprezzante, cordiale con i colleghi, amabile con i malati che trattava tutti con uguale cortesia. Il suo studio, sempre affollato, il giovedì era aperto ai soli poveri che venivano curati gratuitamente. Non teneva solo per sé le sue conoscenze, ma ancor giovane aveva aperto una scuola medica privata che si serviva anche delle corsie e dei teatri anatomici dell’ospedale. Nella Napoli borbonica la medicina veniva studiata o nel Real Collegio Medico oppure presso collegi o scuole private. Era la validità dell’insegnamento che richiamava gli studenti e la scuola del Ramaglia era tra le più frequentate.
Dedicava molto tempo all’insegnamento dell’anatomia normale e di quella patologica, della semeiotica fisica e della clinica medica . Quanto all’anatomia patologica, disciplina da lui introdotta a Napoli, aveva aperto, nell’Ospedale S. Maria di Loreto, un gabinetto museo di pezzi anatomici patologici ad ognuno dei quali era allegata la storia clinica, la sintomatologia e la diagnosi del malato. Il museo, tra i pochi esistenti all’epoca in Europa, era grandemente apprezzato dai medici stranieri che di frequente visitavano Napoli.
Particolarmente apprezzato fu da Dupuytren. Sempre aggiornato sui progressi della medicina, ne faceva partecipi gli allievi per i quali mise a punto un “metodo diagnostico” che fu descritto e pubblicato dal suo discepolo, il dott. Domenico Capozzi, molisano di Morcone (a quei tempi della provincia di Molise) già primo suo assistente, che lo accompagnava quando era chiamato, anche fuori sede, dalla famiglia reale, a detta del De Cesare, e che divenne una grande personalità della medicina napoletana.
Il metodo, descritto minutamente, si basava oltre che sulla storia clinica, molto sulla semeiotica fisica impostata sull’ispezione, la palpazione, la percussione e l’auscultazione. Queste ultime due manovre erano state proposte e introdotte da poco tempo da Auenbrugger e da Laennec. Laennec aveva introdotto lo strumento idoneo a migliorare l’auscultazione, il “tubo”, che diventerà lo stetoscopio, e Piorry il plessimetro, strumenti che però non erano in uso nella scuola di Ramaglia, secondo il Capozzi.
Sempre per agevolare lo studio del malato, Ramaglia pubblicò nel 1840 un volume di “Notomia topografica”. Appannaggio dei chirurghi che hanno bisogno di conoscere le regioni su cui intervenire, la Notomia topografica fu pensata dal Ramaglia come strumento necessario anche agli internisti che se ne potevano servire per sapere quale fosse la proiezione sulla superficie cutanea dell’organo da indagare con la semeiotica fisica.

L’impegno che profondeva per l’insegnamento ai giovani non lasciò questi indifferenti, tanto che, quando era ancora abbastanza giovane docente, i suoi discepoli gli fecero scolpire un busto che è l’unica effige che si conosca e che invano ho cercato per fotografare in occasione di questo ricordo.
Per il suo aspetto fisico mi rifaccio al De Cesare che così lo descrisse quando fu chiamato a Lecce per curare il re ammalato: i leccesi “videro questo vecchietto (aveva 57 anni) elegante e vispo.., non alto di statura, ma dall’aspetto signorile e sorridente, accompagnato da un giovane non più alto di lui... poi si seppe che il primo era don Pietro Ramaglia, e il secondo il suo assistente Domenico Capozzi, che doveva più tardi acquistarsi un nome da eguagliare quello del maestro...

Caduto il Regno Borbonico, Francesco De Santis, Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo post unitario e riordinatore della Università degli Studi di Napoli, lo chiamò alla cattedra di Anatomia patologica prima e a quella di Clinica medica dopo. Nel 1865, però, Ramaglia che aveva avuto le prime avvisaglie del male che dieci anni dopo doveva portarlo alla tomba, si dimise dalla cattedra, ma non abbandonò gli studi che terminarono con l’analisi precisa della sua malattia.

La casa di Don Pietro Il suo tempo era stato tutto impegnato nella cura dei malati e nell’insegnamento e poco ne rimaneva da dedicare allo scritto, per cui non furono molte le sue pubblicazioni: oltre al testo di Notomia topografica si conoscono una monografia sull’angina pectoris, una sugli aneurismi dell’aorta, molte descrizioni di casi clinici e una monografia sulla origine della gangrena secca che anticipa quella che sarà l’etiologia trombotica.

Per 40 anni aveva studiato la meningite tubercolare raggruppando una notevole casistica da cui trasse un lavoro che lo impegnò fino al termine della sua vita che si concluse a Napoli il 4 giugno del 1875. Lasciò alla moglie l’incarico di far pubblicare il suo ultimo lavoro “Studi sulla Meningite basilare granulosa”, studio che vide la luce nel 1876.

Semplici le sue esequie, ma la grande partecipazione di docenti, di medici e di popolo sta a testimoniare la grande stima e l’affetto che lo circondavano per la sua umanità e per la dedizione all’insegnamento. Ricordo che fra i suoi discepoli, oltre al Capozzi, anche Antonio Cardarelli che darà grande lustro alla scuola positivo-naturalistica napoletana e al metodo anatomo-clinico sperimentale.

In memoria di Don Pietro La sua provincia di origine è stata sempre tiepida nei suoi confronti; oltre un semplice telegramma del Consiglio provinciale alla vedova e la lapide sulla sua casa natale dopo trent’anni e l’intitolazione di una strada a Ripabottoni, suo comune di origine, null’altro. E’ principalmente questo il motivo per cui Pietro Ramaglia è sconosciuto ai più.



Campobasso, gennaio 2005
Italo Testa







Dal Bollettino Ufficiale dell'ordine dei medici - chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Campobasso
Autore: Italo Testa
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